Fine: 12 agosto 2015
Qualsiasi cosa si voglia dire dopo
aver letto questo libro, rimane un’unica certezza a riguardo: è una lunga
denuncia, chiara, malcelata e assolutamente provocatoria. E meno male che è così!
Viste tutte le cose contro le quali Davide De Zan è andato a sbattere in dieci
anni, direi che questa lunga denuncia è quantomeno un atto dovuto, Pantani o
meno. Una atto dovuto nei confronti della legge, che ha fallito e un atto
dovuto nei confronti dell’uomo, che si è trovato invischiato in tutto questo.
Il perché, probabilmente, non lo sapremo mai. Prima di cominciare però, vi
vorrei dire cosa non ho trovato. A parte qualche ricordo commovente del Pantani
uomo, disponibile, gentile, affettuoso e molte riflessioni dello stesso Davide,
non ho trovato Marco Pantani dal 1999 al 2004. Trovo ben descritti i fatti di
Madonna di Campiglio e di Rimini… ma di Marco Pantani ‘99/04 nada. Magari gli affezionati non ne
hanno bisogno, ma questo libro è fatto per chiunque voglia vederci chiaro in
una vicenda che di chiaro ha ben poco, e, forse, senza speculare (De Zan che
specula su Marco Pantani proprio non ce lo vedo) si poteva anche dare qualche
informazione in più. Chi meglio di lui poteva spiegare, senza esagerare nei
dettagli? Invece non lo ha fatto e, questa, a mio parer, è una mancanza… e
nemmeno tanto piccola. Comunque, per amore di chiarezza ed ordine, il libro
verte su due macro argomenti: l’arresto di Pantani a Madonna di Campiglio ed il
conseguente ritiro dal Giro d’Italia (ormai praticamente vinto) del 1999 per
un’accusa di doping e l’omicidio (perché omicidio fu) di Marco, a Rimini, nel
residence le Rose, il 14 febbraio 2004. Attraverso dieci anni, partendo da una
promessa a mamma Tonina, Davide De Zan raccoglie informazioni e testimonianze
assieme all’avvocato (e poi amico) Antonio De Rensis, difensore della famiglia
Pantani, che porteranno nel 2014 alla riapertura delle indagini per l’omicidio e non il suicidio di Marco Pantani. Se venisse dimostrato che Marco fu
ucciso perché “scomodo” si potrebbe anche risalire al mandante della scandalosa
messa in scena dell’ematocrito alto a Madonna di Campiglio, volutamente
alterato da qualcuno, affinché Pantani fosse fuori dai giochi. Perché come dice
De Zan, a Madonna di Campiglio hanno
ucciso il campione, a Rimini hanno ucciso l’uomo.
Essendo quella del buon Davide
un’indagine a tutti gli effetti, non ha molto senso che io la sintetizzi. Non
saprei cosa dirvi e cosa non dirvi. Tutto è talmente importante, ogni tassello,
che son sicura: commetterei degli errori. Tuttavia farò del mio meglio e per
non peccare nei confronti di De Zan, apporrò tra parentesi quadre tutto ciò che
so o che ho dovuto colmare e che lui non dice, vedendo di fare un po’ di luce
anche per voi.
Devo decidere, perché non è semplice
da fare, se questo libro sia stato scritto dal giornalista, dall’amico o da
entrambi. Fondamentalmente propendo più per l’amico, che non per il giornalista,
proprio per alcune mancanze che un giornalista non si sarebbe assolutamente
concesso. Con questo non intendo dire che De Zan sia stato di parte o fazioso,
assolutamente no; espone i fatti con chiarezza, porta prove, pareri, spiega
minuziosamente come sono state fatte le indagini (in modo scandaloso!!). Depone
assolutamente per la verità. Non nega mai che Pantani abbia preso o fatto uso
di droga la mattina del 14 febbraio 2004, o la notte precedente la sua morte,
semplicemente dimostra come risulti totalmente assurda la ricostruzione fatta
dalla polizia. Però questa cosa, ad esempio, cioè che non spieghi perché Pantani fosse arrivato a abusare della
cocaina, mi ha disturbato parecchio. Mi è sembrato di non potere capire a fondo,
di non essere messa al corrente di tutto. Ad ogni modo ho cercato di calarmi
nei suoi panni e di comprendere che lo scopo del suo lavoro è stato fin da
subito quello di verificare che non esistesse un’altra verità, cosa che
effettivamente esiste eccome. A pensarci bene, al fine ultimo del libro, al
lettore non interessa se Pantani abbia fatto o no uso di droga nella sua vita;
quello che semmai è utile e giusto è sapere se la legge abbia effettivamente
fatto fino in fondo il proprio dovere… e questo non perché Pantani è Pantani, ma
perché Pantani è un uomo normale e la legge è uguale per tutti. Perché un
ragazzo, che ha fatto molti controlli durante il Giro d’Italia (ed è sempre
stato pulito) perché ha la Maglia Rosa sulle spalle, non si dopa a due giorni
dalla tappa finale; perché uno che ha qualcosa da nascondere, non accetta di
sottoporsi ad un esame palesemente svolto in modo scorretto, a cuor sereno; perché
uno che la sera ha l’ematocrito a 47, non può averlo a 53 la mattina dopo e di
nuovo a 47 il pomeriggio; perché nessuno lo ha difeso e nessuno si è opposto. [Perché
nei giorni e negli anni in cui si distruggeva Pantani, uno come Armstrong
veniva coperto da medici, giudici, etc pur essendosi sempre dopato. Portato in
trionfo come l’atleta esempio, che aveva sconfitto il cancro ed era tornato a
vincere. Lui, che poi ha ammesso di essersi drogato sempre, prima e dopo il
cancro (qualche volte anche durante la cura!). Sempre. Sia chiaro: le vicende
non sono legate, ma è per dire che c’era chi veniva protetto nell’illegalità e
chi veniva accusato di cose che non
poteva avere fatto! Le due cose sono avvenute con la stessa facilità]. E poco
si sa su chi veramente abbia voluto fermare Marco, in questo modo atroce,
entrando a gamba tesa. Si conoscono i motivi (si scommetteva tutto sul secondo,
dato per spacciato e si intascavano MILIARDI di lire) ma non i mandanti e forse
nemmeno chi abbia alterato le analisi. Nomi che forse non avremo mai, intanto l’importante
è che si sappia.
Eppure, anche se ignobile, da sé questa
cosa avrebbe anche potuto fermarsi lì. In realtà innescò una tragedia maggiore.
Marco non accettò mai di essere stato ferito nell’orgoglio e nella dignità di
atleta e di uomo, risaltò in sella, si, ma non fu più lui. [Forse lì cominciò
davvero a drogarsi, forse invece no. Ancora adesso c’è chi pensa che si ritirò
dal Tour del 2000 per evitare il controllo anti-doping, anziché per una
dissenteria. Fosse anche stato dopato, Armstrong lo era più di lui e il Tour
era perso comunque. Certo è che la psicologia di Marco era devastata: lui fisicamente
c’era, ma la cosa si fermava lì. Sappiamo che il 2003 fu un anno
particolarmente duro, con il ricovero in clinica per depressione ed alcolismo. Di
droga non si parla, nemmeno l’ombra. La droga salta fuori solo quel 14 febbraio 2004]. Fino al tragico
epilogo, in quella camera nel residence di Rimini tristemente famoso. E se
avete pensato di averne sentite abbastanza e credete di essere sufficientemente
indignati, arrivati fin qui, preparatevi al peggio. La morte di Marco Pantani è
una farsa ancora peggiore dello sgarbo a Madonna di Campiglio, primo perchè lui
è morto, secondo perché chi doveva
indagare ha fatto, per usare un eufemismo, un gran
casino [volontariamente? Involontariamente?]. De Zan, con perizia e dovizia
di particolari spiega come sono state fatte le indagini (documentate peraltro!),
in quale modo approssimativo e totalmente scevro di competenza siano state
raccolte (o meglio scansate) le prove. Come i testimoni vengano smentiti dai
fatti, o da altri testimoni. Come molta gente sappia e non parli. Come il corpo di Marco Pantani sfidi qualsiasi legge fisica e medica (secondo il risultato dei reperti). Come non sia
stato possibile porre rimedio ai danni fatti sulla scena del crimine, né sarà
mai possibile porre rimedio alla morte di un uomo. In un crescendo di schifo, perché
altra parola non mi viene, ci si rende conto dell’ingiustizia madornale,
aggravata dalla leggerezza, che un’intera famiglia ed una nazione hanno subito.
Perché siamo tutti Pantani. Perché può
toccare a noi essere vittime. Se chi
dovrebbe indagare per capire, non fa bene il proprio lavoro, siamo spacciati. Tutti.
Perché non è il torto o la ragione il punto fondamentale della questione, ma il
modus operandi. Adeguate indagini
sono solo il punto di partenza, il requisito minimo. E vorrei chiarire che non
è la solita lotta guardie contro il resto del mondo. Assolutamente no. Non ci
sono buoni o cattivi, ma solo gente che fa il proprio lavoro. Marco era un
ciclista, scalava le montagne e lo faceva bene; le forze dell’ordine indagano,
cercano di trovare i bandoli delle matasse, approfondiscono, è quello il loro
lavoro. Non è facile, alle volte si sbaglia, è umano. Ma ci sono sbagli che si
possono evitare, rimandare, non fare… io non voglio nemmeno pensare a persone
corrotte, voglio fermamente credere che sia stata solo leggerezza,
inesperienza, superficialità, piuttosto che insabbiamento. Voglio credere che
davvero abbiano pensato che fosse suicidio,
che davvero a nessuno sia venuto il
dubbio che potesse essere altro, lì, in quella stanza. Ma dopo avere saputo
che Marco quel giorno aveva chiesto alla reception che venissero chiamati i
carabinieri (due volte) perché qualcuno lo molestava, dopo avere saputo che
qualcuno c’è stato in quella stanza e chissà per quanto tempo (nonostante i
testimoni neghino), dopo avere capito quanto fosse palese la presenza di altre persone, dopo avere capito che Marco è stato ucciso, non puoi non
pensare che si poteva ancora rimediare,
se chi di competenza avesse messo più zelo. E ancora più retroattivamente, se quei benedetti carabinieri fossero stati chiamati, si
poteva evitare. Il dubbio viene e diventa
quasi certezza. Lo diventa soprattutto quando due magistrati di due città diverse
si chiedono, a distanza di 10 anni, se quel giorno sia stato fatto tutto il
necessario per scrivere la parola suicidio sul dossier Pantani M.
E riaprono il caso.
E tu capisci che si sono risposti di
no.